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I social sono morti

Una sera di qualche settimana fa, bevendo birra con un amico al tavolino di un locale nell’Oltrarno, mi sono sentito rivolgere la domanda: “Ma esiste ancora Facebook?”
Il quesito non sottintendeva alcuna intenzione ironica; piuttosto il mio interlocutore, che aveva abbandonato il social blu da parecchi anni, ignorava se effettivamente fosse ancora in piedi o meno.
Ho risposto che sì, esisteva ancora, ma che mi pareva diventato un po’ come quelle città abbandonate dove quasi tutto cade a pezzi o va in malora, salvo la casa e il giardino di pochi irriducibili; una città dove in qualche bar ancora aperto si alza spesso la voce e scoppiano risse, dove le strade sono zeppe di cartelloni pubblicitari invecchiati che nessuno legge e nelle periferie degradate si aggirano gruppi di tossici senza speranza.

Social media is dead logo

Come siamo giunti a questo? E davvero i social sono morti?1 Cominciamo con un breve (e incompleto) excursus storico.
Possiamo considerare il primo progetto social2 di successo MySpace (2003), subito molto amato dai musicisti, ma sostanzialmente poco più che di nicchia al di fuori del contesto angloamericano, caduto in un inarrestabile declino negli anni dell’ascesa di Facebook (dal 2007 in poi)3. Era il periodo in cui molti di noi scoprivano con una certa sorpresa questa nuova piattaforma e, di fatto, un nuovo modo di comunicare e rapportarsi che, progressivamente, relegò in un angolo sempre più angusto l’uso non lavorativo della mail, affiancandosi a una telefonia ancora ferma a SMS, squilli e chiamate. A Facebook si iscrissero in massa i ventenni e i trentenni di allora, per i quali diventò una sorta di palestra dei nuovi strumenti sociali digitali e, velocemente, abitudine nel proprio quotidiano: si tornava a casa dall’università o dal lavoro, si accendeva il computer e si scorrevano con qualche emozione le famose notifiche, curiosi di cosa avessero scritto o postato gli amici4. Chi ha vissuto questi primi anni ricorderà che, lungi dall’essere un’isola di Utopia e con tutti i limiti del caso, Facebook (e magari anche l’altra stella nascente dell’epoca, Twitter con i suoi 140 caratteri) rappresentò realmente uno spazio innovativo e interessante, un canale sociale inteso come ambito di confronto, discussione, relazione.
In realtà, a ben guardare, il sentore di guai futuri non era poi così difficile da scorgere all’orizzonte e, inevitabilmente, questi cominciarono a dare i primi timidi segni di vita qualche anno dopo con l’avvento di pubblicità e strumenti di monetizzazione (erano i tempi in cui le pagine assumevano fini commerciali o professionali e, per esperienza personale, con pochi spiccioli si “acquistavano” migliaia di fan): è un passaggio, questo, ritenuto centrale dai sostenitori della tesi della enshittification (di cui ci occuperemo a breve).
Tornando alla nostra storia, erano anche gli anni in cui si diffondevano i sistemi di messaggistica alternativi agli SMS (sostanzialmente Whatsapp, poi altri) e cominciava il mutamento di Instagram da social nato con un focus sui filtri vintage per la fotografia digitale a una piattaforma centrata sul racconto personale per immagini. Trascorso qualche anno ancora il termine influencer diveniva d’uso comune, così come era ormai evidente che il curioso villaggio globale digitale sviluppatosi con i social avesse portato con sé anche parecchi problemi: dilagare di notizie e informazioni false, di pratiche commerciali invasive, utilizzo opaco e spesso disinvolto dei dati personali5, diffuso individualismo nella forma di un egocentrismo esasperato o di un narcisismo patologico, polarizzazione che alimenta lo scontro, offese, cinismo, linguaggio volgare e spesso violento. In sostanza, i social stavano diventando dei luoghi tossici.
Tralascio volutamente il complesso periodo pandemico che, se da un lato ha favorito un parziale recupero della funzione originale delle piattaforme (quella sociale) in un contesto eccezionale, dall’altro ha esacerbato all’inverosimile molte delle problematiche sopracitate.
Arriviamo così a oggi per poter rispondere alla domanda iniziale: perché i social sono morti?
Risposta: i social sono morti perché hanno perso le funzioni sociali per le quali erano nati.
Le ho citate nelle prime righe: confronto, discussione, relazione.
Nessuno dei social commerciali odierni è pensato e sviluppato in questo senso e, quelle che un tempo erano caratteristiche ontologiche sono ridotte a spettri, spesso grotteschi, di loro stesse.
Detto altrimenti: la funzionalità sociale delle piattaforme è ormai sostanzialmente nulla se non dannosa6.

Le cause della crisi

Descritta la crisi, vediamone le cause. La teoria più interessante al riguardo è la già citata tesi della enshittification (termine poco elegantemente traducibile come “immerdificazione”, divenuto un vero e proprio neologismo nella lingua originale) che l’autore, Cory Doctorow, riassume così7:

Ecco come muoiono le piattaforme: dapprima trattano bene i propri utenti; poi abusano di loro per migliorare le cose per i loro clienti commerciali; e infine abusano di quei clienti per riprendersi tutto il valore e tenerselo. E poi muoiono.
Io chiamo questo processo immerdificazione (enshittification), ed è una conseguenza a quanto pare inevitabile che nasce dalla combinazione della facilità nel cambiare il modo in cui una piattaforma alloca valore, combinata con la natura di un “mercato a due parti”, laddove una piattaforma si piazza fra venditori e acquirenti e tiene ciascuno in ostaggio per l’altro, portandosi via una quota sempre più grande del valore che passa tra loro.

Cory Doctorow (2022), Tiktok’s enshittification.

I passaggi fondamentali individuati da Doctorow sono:

  1. una nuova piattaforma offre inizialmente servizi utili in perdita per attrarre utenza, che tende a vincolare al suo interno attraverso varie strategie;
  2. “intrappolati” gli utenti, la piattaforma si propone a clienti commerciali (cui, di fatto, offre come valore principale la propria utenza e dati sulla stessa) presentando servizi di vendita o pubblicità efficaci e a basso costo (mescolati, talvolta, a numeri gonfiati o incentivazioni poco trasparenti8). Di fatto, in questa fase comincia il degrado qualitativo dei servizi per l’utenza;
  3. una volta che sia gli utenti che i clienti commerciali sono “vincolati” (i primi sul piano delle relazioni, i secondi su quello professionale), la piattaforma non ha più alcun interesse a mantenere servizi di qualità né per i primi né per i secondi, e mira piuttosto a trasferire tutto il valore ricavabile dal rapporto fra utenti e attori commerciali agli azionisti. Così, progressivamente, anche i servizi per i clienti commerciali peggiorano, obbligando a investimenti sempre maggiori da parte degli stessi per ottenere visibilità;
  4. il solo fine della piattaforma è ormai diventato il continuo aggiustamento dei parametri alla ricerca di miglioramenti marginali dei propri profitti, senza tener conto di nessun altro obiettivo.
    Di fatto, è divenuta un luogo tossico sia per gli utenti che per i clienti commerciali che, però, tendono a rimanervi come ingabbiati da vincoli (umani, professionali, tecnici) sviluppatisi nei molti anni d’utilizzo, nonché frenati da ostacoli volutamente posti dalla piattaforma all’abbandono della stessa.

Oltre alla dinamica descritta, evidenzierei altre due fragilità significative:

  • lo stream/feed: tutti i social che potremmo definire classici (Facebook, Instagram, X…) sono basati sul meccanismo dello stream (o feed). Lo stream è il flusso di contenuti che scorriamo in genere verso il basso (o verso l’alto) nella pagina principale di un social.
    Al di là della qualità o meno dei contenuti che compaiono, spesso ridotti a una confusa miscellanea intrisa di pubblicità e post inseriti dall’algoritmo di turno, la logica dello stream è sostanzialmente la stessa da quasi due decenni. Salvo timidi tentativi – più superficiali che sostanziali – di attualizzarla, mancano in questo senso idee nuove, così che i social continuano a perseverare su un meccanismo ormai vecchio e inadeguato rispetto alla quantità sempre in crescita delle informazioni da gestire.
    Un potenziale problema, questo, che riguarda gli utenti, ma anche e soprattutto creatori di contenuti e clienti commerciali.
  • la spazzatura: un altro problema grave dei social è la mediocrità di gran parte dei contenuti che li riempiono. Intorno a pochi contenuti di qualità galleggia un oceano di materiale insignificante, ripetitivo, spesso vera e propria immondizia digitale.
    Del resto, l’ipertrofia in termini di quantità, velocità, ripetitività, conduce a una sorta di usa e getta che forse, in qualche angolo remoto della nostre menti, nutre immense discariche di cose scorse e mai vissute.
    Facile prevedere come in questo senso la situazione sia destinata a peggiorare esponenzialmente con la diffusione di contenuti (testi, immagini, musica, e in futuro video) generati in automatico dalle AI9.

L’opacità dei numeri

Sui numeri dei social pesa la mancanza di statistiche certificate: in assenza di enti certificatori indipendenti le fonti dei numeri sono le piattaforme stesse o stime indirette.
I casi in cui i numeri dichiarati dalle piattaforme (un esempio per tutti, le visualizzazioni) si sono rivelati poco credibili, gonfiati o del tutto fuorvianti, sono numerosi10, com’è evidente la diffusa presenza di account multipli, fake, gestiti da bot, abbandonati. Del resto, per molte di queste metriche non esistono né definizioni né metodi condivisi11.
Inoltre, sebbene siano disponibili alcune statistiche, è piuttosto difficile valutare l’utilizzo su un piano qualitativo, piuttosto che meramente quantitativo. Ovvero, analizzare adeguatamente la qualità dell’utilizzo, in termini di modalità comportamentali e profondità dell’interazione.

C’è una soluzione?

Secondo Doctorow, i punti fondamentali su cui si dovrebbe agire sono due:

  • garanzia dell’end-to-end: nelle piattaforme ciò significa che l’utente ha il diritto di ricevere ciò che chiede, e non ciò che decide la piattaforma. Ad esempio, vedere tutti i contenuti di una pagina/canale a cui si è iscritti senza che intervenga un opaco algoritmo a selezionarli, o avere dei risultati di ricerca puliti in base alla propria query, e non mescolati o posposti a risultati sponsorizzati e annunci;
  • diritto all’uscita: gli utenti dovrebbero essere liberi di abbandonare la piattaforma “immerdificata” e morente, rimanendo però collegati alla comunità che si sono costruiti e preservando il materiale creato negli anni d’utilizzo.
    Tradotto in pratica, dovrebbe essere garantita la possibilità di migrare facilmente da una piattaforma a un’altra – l’interoperabilità fra piattaforme.

I’m old enough to remember when the Internet wasn’t a group of five websites, each consisting of screenshots of text from the other four.

Tom Eastman

Personalmente credo che l’unica soluzione reale stia nella nascita di piattaforme sociali aperte e non commerciali12, un po’ l’equivalente social di Linux o del software open source. Del resto, la natura originaria della rete (o, almeno, della rete divenuta servizio aperto a tutti) era più vicina a un mondo libero e anarchico che non a un mercato gestito (distorto) da quattro o cinque grandi società.

Dopo i social

Tre decenni di Internet ci dicono chiaramente che niente è per sempre e, a ben guardare, il fenomeno social sembra essere durato già molto a lungo in confronto agli esempi del passato. Com’è dunque che, nonostante i tanti guai, i social sopravvivono?
La risposta è semplice: non è ancora stato trovato un modello innovativo abbastanza efficace da decretarne il definitivo superamento.
Ma l’accumularsi di problemi irrisolti ci dice che, un po’ come per i passaggi di paradigma in campo scientifico13, un nuovo modello è in arrivo. Quale forma questo assumerà è difficile dirlo. Io tendo a immaginare qualcosa basato su realtà virtuale/aumentata e AI (su dispositivi indossabili che sostituiranno gli smartphone) ma più vicino, come derivazione, al mondo dei videogiochi che non a quello dei social14.

Riferimenti e note

  • Anderson C., Wolff M. (2010), The Web Is Dead. Long Live the Internet. Wired – https://www.wired.com/2010/08/ff-webrip/
  • Attivissimo P. (2022), Cory Doctorow e la enshittification: perché i servizi online e i social network commerciali diventano tutti tossici. Metaverso compreso – https://attivissimo.blogspot.com/2023/01/cory-doctorow-e-la-enshittification.html
  • Baker-White E. (2023), TikTok’s Secret ‘Heating’ Button Can Make Anyone Go Viral. Forbes – https://www.forbes.com/sites/emilybaker-white/2023/01/20/tiktoks-secret-heating-button-can-make-anyone-go-viral/?sh=1f492b346bfd
  • Doctorow C. (2022), Tiktok’s enshittification – https://pluralistic.net/2023/01/21/potemkin-ai/#hey-guys
  • Il Post (2023), Le grandi piattaforme sono sempre peggio – https://www.ilpost.it/2023/08/03/enshittification/
  • Il Post (2024), Spotify è circondato dalle intelligenze artificiali – https://www.ilpost.it/2024/01/28/spotify-intelligenze-artificiali/
  • Il Post (2023), “Visualizzazioni” può voler dire troppe cose – https://www.ilpost.it/2023/09/30/metriche-internet/
  • Wikipedia, Enshittification – https://en.wikipedia.org/wiki/Enshittification
  • Wikipedia, Le “Fasi” della Scienza per Kuhn – https://it.wikipedia.org/wiki/Thomas_Kuhn
  • Wikipedia, Scandalo Facebook-Cambridge Analytica – https://it.wikipedia.org/wiki/Scandalo_Facebook-Cambridge_Analytica
  1. Qualcuno ricorderà il famoso articolo di Wired, correva l’anno 2010, The web is dead: a posteriori possiamo tranquillamente sostenere che no, il web non era morto, seppure stesse mutando pelle verso direzioni meno aperte e democratiche. ↩︎
  2. Non c’è dubbio che anche forum e blog fossero e siano delle piattaforme sociali, seppur molto diverse sia sul piano tecnico che su quello dell’interazione rispetto ai social comunemente intesi. ↩︎
  3. Cito quanto scrissi allora (2010): “MySpace era, almeno nel suo primo periodo, il “social network dell’avatar”, un riferimento per community di un web ancora lontano dal quotidiano, o almeno non direttamente collegato ad esso; Facebook ha rappresentato e rappresenta per molti versi la fine di quel web (o più probabilmente, solo l’inizio della fine) a favore di una rete che contamina e si fa contaminare dalla dimensione reale, dalla vita quotidiana.” ↩︎
  4. Vale la pena di ricordare che in questi primi anni l’utilizzo di Facebook avveniva esclusivamente via web, su computer. Una differenza non da poco circa l’impatto nel quotidiano di ognuno. Solo successivamente, l’arrivo di versioni mobile fruibili e sempre più complete, modificò progressivamente e sostanzialmente l’esperienza d’uso. ↩︎
  5. La questione emerse all’onore delle cronache con lo scandalo di Cambridge Analytica, ma si trattava della punta di un iceberg dalle dimensioni ben più significative. ↩︎
  6. Va da sé, sarebbe sciocco negarlo, che sui social rimangono ancora cose belle, interessanti o utili; del resto, anche nei deserti ci sono oasi e sporadiche quanto effimere fioriture. ↩︎
  7. In realtà, la tesi di Doctorow si applica ai social come ad altre piattaforme (Doctorow cita Amazon, Google, Steam, le piattaforme di criprovalute e molte altre). Una trattazione più ampia in italiano la trovate nel blog di Paolo Attivissimo. ↩︎
  8. Doctorow utilizza la metafora dell’orsacchiotto gigante, il peluche che tutti vorrebbero vincere alla bancherella del luna park, il premio più ambito che nessuno riesce ad aggiudicarsi. Poi, magicamente, il banco fa vincere a qualcuno quell’orsacchiotto, e il vincitore si aggira per il luna park convincendo altri “polli” che qualcuno davvero vince, che vincere è possibile.
    Così fanno le piattaforme: distribuiscono saltuariamente pochi orsacchiotti giganti per convincere masse di aspiranti vincitori a investire tempo, impegno, e soprattutto soldi nel vano tentativo di accaparrarsi l’ambito peluche.
    Il meccanismo, peraltro, somiglia in maniera piuttosto inquietante a quello del gioco d’azzardo.
    Sembrano esserci casi documentati del fatto che alcune piattaforme utilizzino questo tipo di strategie opache, vedi ad esempio:
    https://www.forbes.com/sites/emilybaker-white/2023/01/20/tiktoks-secret-heating-button-can-make-anyone-go-viral/ ↩︎
  9. Fra le prime piattaforme a dover fronteggiare queste problematiche sembra esserci Spotify. ↩︎
  10. Vedi https://www.ilpost.it/2023/09/30/metriche-internet/ ↩︎
  11. Detto in altri termini, non sono dati oggettivi o confrontabili. ↩︎
  12. Un tentativo in questo senso è Mastodon. ↩︎
  13. Vedi la struttura delle rivoluzioni scientifiche secondo Thomas Kuhn. ↩︎
  14. Del resto, il cosiddetto “metaverso” sembra ormai morto e sepolto prima ancora d’esser nato. ↩︎

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