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A nord di Roma

Un cielo di nuvole disegna immensi cuscini di vapore.
La prima volta che prendi un aereo – mi capitò verso i sei anni, ma non lo ricordo, e allora più o meno dopo i venti – capisci che la storia delle nuvole, l’idea ingenua che abbiano una qualche consistenza, è una fregatura, e pur essendo un’ovvietà un po’ ti spiace comunque.
Ti spiace come certe delusioni sentimentali che sai da tempo essere tali, lo sai perché è nell’aria e nei gesti e nel non detto, ma ci rimani un po’ male lo stesso.
Mi lascio andare sullo schienale della poltroncina in terrazza e osservo l’orizzonte.
Alla mia sinistra le colline verdi del Chianti si susseguono dolci verso il senese.
A destra, molto più lontane, le montagne dell’Appennino pistoiese, con le cime che soltanto qualche settimana fa spiccavano ancora bianche, innevate.
Un aereo passa ronzando fra le nuvole, diretto verso Atene, Madrid o forse Roma.
Lo vedo scintillare per qualche istante, poi il mio sguardo cade sui tetti piatti e coperti di ghiaia del palazzo di fronte, sulle tende bicolore che riparano dal sole le terrazze da cui comunicavamo gridando da bambini, sui rami del grande cedro del Libano che ho visto crescere, su una vecchia Panda bianca parcheggiata poco più in là, sul campo da calcio con le porte rimaste senza reti.
E mi commuovo un po’, al fiume di ricordi.

P.S.
Il terzo paragrafo, così come il titolo, sono volutamente ispirati al finale di un bellissimo libro di John Fante.

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